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C’è un suono che ho imparato ad amare da bambino e non era la sigla dei cartoni animati o lo scroscio del mare d’agosto, ma quel borbottio familiare della moka sul fornello. Un rumore discreto, quasi intimo, che annuncia qualcosa di più di una bevanda: un momento! Perché diciamocelo: in Italia il caffè non è solo caffeina. È un rito. Una pausa che racconta chi siamo, anche quando non diciamo nulla.
E al centro di questo rituale, da quasi un secolo, c’è lei: la Moka Bialetti. Un oggetto semplice,
ottagonale, d’alluminio. Ma capace di contenere dentro di sé tutta un’estetica,
uno stile di vita, un modo di vedere il mondo. Un concentrato di design e
memoria che oggi fa parte della nostra identità collettiva.
Da Crusinallo al MoMA
Tutto parte da Crusinallo, frazione di Omegna, Lago d’Orta. È lì che Alfonso Bialetti, tecnico tornato dalla
Francia, apre una fonderia di alluminio. È il 1933 quando, ispirandosi al rudimentale
funzionamento della “lisciveuse” (una
vecchia lavatrice a pressione), inventa la Moka
Express. Una genialata che traduce un principio meccanico in un gesto
quotidiano. Caldaia, filtro, raccoglitore. Nessun fronzolo, solo funzionalità.
Ma la vera svolta arriva più tardi, grazie a suo figlio. Renato intuisce
che un grande prodotto ha bisogno di una grande narrazione. E negli anni ’50,
quando la pubblicità in Italia era ancora agli albori, affida a Paul Campani la
creazione dell’omino coi baffi: una caricatura sorridente di se stesso,
che diventa il volto ironico e rassicurante del brand. Il Carosello fa il
resto: “Eh sì, sì, sì… sembra facile fare
un buon caffè!”. E milioni di italiani iniziano a riconoscersi in
quell’omino.
Tra successi, crisi e rilanci
Per anni, la moka è ovunque. Ogni cucina ne ha almeno una. È l’oggetto che
ti aspetta al rientro, il complice delle chiacchierate sul balcone. Ma con gli
anni ’70 arrivano i primi scossoni: concorrenza spietata, caffettiere a basso
costo, nuovi stili di consumo. L’azienda cambia più volte proprietà e nel 2007
approda in Borsa, con l’ambizione di reinventarsi. E ci riesce, almeno in
parte. Lancia macchine a capsule, una linea di caffè, ma soprattutto inizia a
parlare la lingua del design contemporaneo.
La moka, nel frattempo, entra nei musei. Esposta alla Triennale di Milano e
al MoMA di New York, viene celebrata come capolavoro funzionale che strizza
l’occhio all’Art Déco ma non invecchia mai. La sua forma brevettata non è solo
bella: è pensata per essere usata, anche con le mani bagnate. Design
democratico, verrebbe da dire.
Una nuova vita, tra green e globalizzazione
Negli ultimi dieci anni, Bialetti ha saputo reinventarsi ancora. Ha
investito in sostenibilità, l’alluminio è riciclabile, la moka si lava senza
detersivi, i fondi del caffè si compostano e ha riacceso l’interesse delle
nuove generazioni, senza snaturarsi. Online, nei social, nei concept store. E
anche se oggi esistono mille modi per prepararsi un caffè, la moka ha ancora un fascino tutto suo.
Perché ti obbliga ad aspettare. E nell’attesa, paradossalmente, ci ritroviamo.
Nel 2025, con l’ingresso del fondo lussemburghese-cinese Nuo Capital, si è
tornati a parlare di “italianità venduta”.
Il brand rassicura: l’identità non si tocca. Ma la domanda resta: può il Made in Italy sopravvivere se le
decisioni si prendono altrove? La risposta, forse, sta proprio in quel
borbottio. Finché ci sarà qualcuno che lo aspetta, con la tazzina pronta e un
po’ di tempo per sé, la moka non sarà mai solo una caffettiera.